martedì 19 aprile 2011

ortincittà. architettura open air

Il 18 aprile inizia l'esercizio sul campo, cioè l'attività architettonica e agricola in due orti urbani di via Chiodi, a Milano. Con grande emozione si sfoderano zappe e vanghe e si inizia a dissodare il terreno che è molto compatto, sassoso, pieno di detriti.
Il quarto da sinistra è Antonio Ferrante, agronomo dell'Università di Milano, l'esperto che guida il nostro orto didattico.



sabato 16 aprile 2011

Inizio lavori in via Chiodi


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Lunedì, dalle ore 10,00, il laboratorio di progettazione lascia l'aula e si trasferisce nell'orto messo a disposizione dall'arch. Claudio Cristofani in via Chiodi, a Milano. Nelle prossime settimane Orti urbani seguirà da vicino questa esperienza sul campo.  


venerdì 15 aprile 2011

Un orto può essere architettura?

di Alessandro Altini


Padiglione 2011 della Serpentine Gallery di Londra
(Peter Zumthor - Piet Oudolf)



L'idea comune porta a credere che un orto urbano sia uno spazio ritagliato tra palazzi e infrastrutture, disordinato, ricco di materiali, senza una logica reale apparente; spesso è nascosto, inaccessibile e, a maggior ragione se abusivo, poco identificabile ai normali tragitti che le masse compiono in città.



Peter Zumthor, per il progetto di allestimento della Serpentine Gallery 2011 di Londra, rielabora il concetto di orto applicandone i propri principi; l'estetica e la scelta dei materiali sono finalizzati ad aumentare l'esperienza emotiva di questo spazio verde nel cuore di Londra.
Allo stesso tempo, un orto in città può essere considerato un luogo d'evasione, di riflessione e quindi non per forza deve avere quel carattere produttivo, collegato alla coltivazione di ortaggi; credo che anche curare un giardino, delle piante o dei fiori possa essere un ulteriore possibile utilizzo di questi spazi; agli orti urbani che si vedono nelle nostre città manca l'unicità e il percorso buio contemplativo che Zumthor antepone al giardino, come a voler preparare i visitatori ad una introspezione personale. L'analogia non manca invece se si considera la sfera personale, sociale che si ritrova nella parte chiusa, l'hortus conclusus vero e proprio, un luogo di estraneazione dalla città, nell'allestimento separato da alte pareti scure e, negli orti tradizionali, semplicemente rappresentato dai sentimenti personali che si hanno estraniandosi dal contesto urbano per pochi minuti al giorno durante la coltivazione del proprio orto.
Zumthor, oltre che della sua esperienza architettonica, si avvale di un paesaggista famoso, Piet Oudolf, per la scelta compositiva del giardino fiorito, inoltre, c'è da ricordare che si tratta pur sempre di un allestimento museale e non di un orto a pieno campo, nonostante ciò, non solo per i materiali scelti, il suo intervento può essere comunque un buon esempio di utilizzo degli orti urbani, pur non essendone uno.

lunedì 11 aprile 2011

Milano orti urbani, la storia


di Elena Ruzza

Nella storia di Milano città e agricoltura hanno sempre convissuto, anche se con modalità, finalità e valenze diverse a seconda delle varie epoche. Guardare alle forme che hanno assunto gli orti urbani nel tempo ci racconta qualcosa del modo di pensare, vivere e produrre di chi li coltivava.
Risalendo fino al medioevo, i documenti storici dell'epoca dimostrano l'importante presenza di orti attorno alla città, la maggior parte dei quali di proprietà dei monasteri.
Ma è Bonvesin de la Riva, nel 1288, a lasciarci nel De Magnalibus Mediolani una delle prime testimonianze della presenza di orti e frutteti all'interno delle mura della città.
Questi li troviamo poi rappresentati, per la prima volta, nella pianta di Milano disegnata da Lafrery nel 1573, da cui notiamo come si concentrino nell'anello tra le due cinte murarie. Erano ancora proprietà degli ordini monastici e si trattava di “orti recinti da piccoli muri qualche volta privi di qualunque chiusura o, di frequente, definiti da staccionate di pali verticali, un po' distanziati fra loro e legati a pali orizzontali o posti a sostenere intrecciature di fasciami” (da L. Gambi e C. Gozzoli, Milano, 1982). Nel complesso, non dovevano a prima vista apparire molto diversi dalla maggior parte degli orti che incontriamo a Milano oggi.
Cambia l'epoca storica, cambiano gli abitanti della città: nel '700, nella fascia compresa tra le mura si insediano ricche famiglie aristocratiche che acquisiscono le aree ortive. Milano doveva sembrare all'epoca molto diversa e, soprattutto, più verde: veniva descritta ancora nell'Ottocento come “un immenso giardino” (Cantù, Milano storia del popolo e pel popolo, 1871) in cui non mancavano le coltivazioni di frutteti e ortaggi.
Con l'avvento dell'era industriale, l'orto ritorna strumento fondamentale di sussistenza economica per la nuova classe operaia. L'integrazione del salario con la produzione di ortaggi diviene un'attività apertamente sostenuta e incentivata con pubblicazioni e comitati in sostegno degli orti operai. Particolarmente rilevante è l'innovativa iniziativa promossa dall'Istituto per le Case Popolari, che nel 1915 istituisce in periferia i primi orti in affitto per gli inquilini delle sue case.
Tra le due guerre, la retorica fascista dell'autarchia trova negli orti urbani un'importante applicazione pratica che viene portata all'estremo durante la seconda guerra mondiale quando vengono messi a coltura parchi, piazze, viali della città, fino alle aree distrutte dai bombardamenti. Esemplare è la foto scattata nel 1943 che ritrae la mietitura del grano in piazza duomo a Milano, sotto la Repubblica di Salò.
La ricostruzione nel dopoguerra e l'espansione urbana che seguì spingono le coltivazioni sempre più in periferia. Comincia in questo periodo un tendenza che si consoliderà negli anni '80 e che dura tutt'ora: il significato degli orti per i suoi coltivatori è sempre meno legato a ragioni di tipo economico.
I nuovi orticoltori sono i nuovi cittadini milanesi: immigrati dalle campagne in una città sempre meno verde, abitanti di quartieri inospitali privi di spazi aperti e di socializzazione. I nuovi orti sono un tentativo più o meno consapevole di conservare le proprie radici e di contrastare un modello urbano e sociale dominante. Ma questa è storia di oggi.

Cairo, Bucarest, e altri orti



venerdì 8 aprile 2011

Victory Gardens, guerra allo spreco


di Cristina Nogara






An World War II poster depicting an old man 'digging for victory'.
Non siamo in tempo di guerra, sebbene talvolta possa sembrarlo… infiniti articoli sul “credit crunch”, riduzione e aumento vertiginoso dei prezzi del cibo, stanno sollevando una certa ansietà.
Durante la seconda guerra mondiale i britannici crearono i cosiddetti Victory Gardens nelle piazze e nei parchi in tutto il paese. Coltivavano il loro cibo personale in spazi molto stretti e compressi, come risposta alla carenza di cibo dovuta alle restrizioni sull’importazione in tempo di guerra.
L'idea di mangiare cibi di stagione coltivati localmente e biologicamente vale anche per noi, oggi. E nel cuore dello storico St James’s Park è stato creato, da Dig for Victory, un allotment garden per riportare alla memoria il profumo di quei tempi e incoraggiare la gente ad abbracciare l’idea di coltivare per se stessi. Per il secondo anno consecutivo, è stato creato un piccolo allotment garden nello spirito di quelli coltivati in guerra, con un approccio completamente biologico e con l’intento di creare un raccolto con i più alti valori nutritivi.
Era fatto uso di scarti domestici, come contenitori delle uova, rotoli di carta igienica o cornici di vecchie finestre usate come ripari contro il freddo. Tende di rete offrivano protezione dagli uccelli e dal sole deflettendo i raggi lontano dalle piante. Nel 1945 nel Regno Unito venivano coltivati 1.5 milioni di allotments sopperendo al 10% della richiesta di cibo. Per l’approvvigionamento di carne le comunità erano incoraggiate ad allevare il proprio bestiame con l’opportunità di associarsi al club del maiale o del coniglio.
Il riciclaggio nacque come necessità. Con il cambiamento del mondo in cui viviamo, sembra allo stesso modo tornare ad essere un’esigenza.
da Treehugger

Agricoltura e città


di Cristina Nogara
“L’agricoltura urbana sta vivendo un boom e viene praticata da ottocento milioni di persone in tutto il mondo”. Questa frase tratta dal libro di John Thackara 
In the Bubble, offre uno spunto di riflessione sulla portata di un fenomeno ricco di potenzialità per il futuro delle città. L’agricoltura urbana, infatti, oltre ad essere motivo di aggregazione sociale o utile e piacevole passatempo, può assumere funzioni importanti.

Thackara scrive: “fino al quaranta per cento dell’impronta ecologica di una città moderna è riconducibile ai suoi sistemi alimentari, ossia al trasporto, all’imballo, al deposito, alla preparazione e allo smaltimento di ciò che mangiamo.”
Il sistema agricolo urbano potrebbe infatti rispondere alle esigenze di approvvigionamento alimentare a chilometro zero, instaurando così un circolo virtuoso ed ecocompatibile.
Con questo intento nasce Skyland, progetto di vertical farm a impatto zero di ENEA per l’Expo di Milano, che offre la visione di un possibile scenario della città del futuro, tema proposto con interessanti spunti anche da Genitronsviluppo.
Lo sviluppo basato sull’integrazione e sull’autosufficienza produttiva era già per Peter Kropotkin, alla fine del XIX secolo, un concetto imprescindibile e in questa chiave di lettura l’agricoltura non può essere tralasciata, non solo, “il suo modello ciclico di funzionamento va preso ad esempio dalle altre discipline economiche.”
(vedi la tesi di laurea di Emanuele Bobbio)


IN THE BUBBLE. DESIGN PER UN FUTURO SOSTENIBILE




La premessa di questo libro è semplice: se siamo in grado di progettare modi per renderci la vita difficile, possiamo progettarne altri per risolvere i nostri problemi. L’impatto ambientale dei prodotti, dei servizi e delle infrastrutture che ci circondano si determina, fino all’ottanta per cento, in fase di progetto. Le scelte operate in questa fase modellano i processi che sono alla base dei prodotti che usiamo, dei materiali e dell’energia necessari a realizzarli, delle diverse modalità del loro utilizzo quotidiano e di ciò che accade loro nel momento in cui non ci servono più. Oggi sono numerosi i progettisti che, con forza, si impegnano nel creare servizi e infrastrutture molto meno dannosi per la biosfera di quelli attualmente in uso. Il libro presenta una ricca rassegna di questi esempi, spesso illuminanti.

giovedì 7 aprile 2011

Fronte dell'orto, il 9 aprile a Milano


di Matteo Isipato


Camminare per il centro di Milano e ritrovarsi all’improvviso davanti ad un grande orto? Sarà possibile Sabato 9 Aprile in piazza della Scala, grazie all’iniziativa Fronte dell’orto organizzata da Stefano Boeri, ex co-progettista dell'Expo milanese e capolista del PD per le prossime amministrative del comune di Milano.


Il Fronte dell’Orto è una provocazione, un messaggio rivolto anche all'ad di Expo 2015, Giuseppe Sala, che ha proposto di cambiare il tema dell'Expo da “Nutrire il pianeta, energia per la vita” in “Frontiere della tecnologia, della ricerca e del futuro”, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista sia tecnico che etico.
Partecipare all’evento è semplicissimo; basterà trovarsi alle ore 17:00 davanti a Palazzo Marino con la piantina di un qualunque ortaggio. Un piccolo ma grande gesto che è insieme divertimento, arte e politica. Quanto è grande il potere di un orto?

(Levi van Veluw is a young Dutch multidisciplinary artist, he lives and works in the Netherlands. His "Landscapes series" is pretty amazing!)

Agriturismo urbano


di Paola Tonizzo

L’associazione dei giovani imprenditori agricoli della Cia (Agia-cia) e la Jeunes Restaurateur d’Europe, raggiungono un’intesa e l’orto si avvicina al ristorante, lo spunto viene dal Vinitaly 2010, Salone Internazionale del Vino e dei Distillati, dedicato anche ai prodotti biologici come l’olio extravergine d’oliva.
I rappresentanti di Agia-Cia e Jre hanno dichiarato che mappando il territorio nazionale e segnalando ai ristoranti le aziende agricole a loro più convenienti per vicinanza e tipologia di prodotti, economicamente parlando, è possibile guadagnare decine di milioni di euro, con un risparmio evidente sulla logistica e sugli sprechi.
Entro quest’ anno dunque 80 ristoratori lavoreranno gomito a gomito con altrettanti agricoltori ottenendo vantaggi reciproci e migliorando la qualità del cibo per la gioia del consumatore. I clienti inoltre potranno visitare il terreno che ha dato vita alla frutta e alla verdura per osservare dal vivo le tecniche di coltivazione e lavorazione dei prodotti sulla loro tavola.

L’orto in prossimità porta vantaggi per tutti: l’agricoltore pianifica la sua produzione grazie alla richiesta del ristoratore, il quale può disporre così di materie prime di ottima qualità con notevole risparmio, il cliente ha una garanzia del 100 % sul prodotto servito. 
Non bastasse, l’accordo prevede anche dei corsi di cucina tenuti dai soci Jre con l’uso dei prodotti Agia, così che alla qualità del prodotto si unisca la qualità nella lavorazione e nella preparazione.
E’ perfetto dunque il connubio tra ristoratore e orto biologico, ed anche il cinema con “I ragazzi stanno bene” diretto da Lisa Cholodenko, non manca di sottolinearlo. 
Il De Kas ad Amsterdam è esemplare per il risultato a cui si vuole mirare. Nel 2001 Gert Jan Hageman e Ronald Kuni, decidono di trasformare un serra destinata alla demolizione in un ristorante. Nell’arco di un decennio il De Kas diventa uno dei locali più “in” della città. La serra, una struttura in vetro degli anni venti, ospitava ed ospita tutt’oggi piante di olivo, fichi e limoni, vantando un rigoglioso orto con una vastissima scelta di prodotti (18 varietà di pomodori e 8 specie di basilico), accogliendo i suoi ospiti, nello splendido parco di Frankendael. Un esempio Italiano di questo progetto è il ristorante Maison Colonna, all’ultimo piano del Palazzo delle Esposizioni di Via Nazionale, situato nel cuore di Roma ma con una splendida terrazza ricchissima di ogni ortaggio.  



 
Il ristorante De Kas, Amsterdam

Link

http://farnienterestaurant.wordpress.com/
http://agricolturaonweb.imagelinenetwork.com/dall-italia-e-dal-mondo/aperta-la-caccia-al-ristorante-con-l-orto-10140.cfm
http://www.ciavattinigarden.it/newsarte_51.aspx
http://blog.paperogiallo.net/2009/07/maison_colonna_un_ristorante_con_lorto_nel_cuore_di_roma.html
http://www.italiaatavola.net/articoli.asp?cod=14971

Intervista a Maddalena Falletti


di Matteo Isipato ed Elisabetta Sciariada 


Oltre che un interessante elemento paesaggistico,gli orti urbani si rivelano anche un ampio tema di ricerca. Maddalena Falletti, dottoranda in Governo e Progettazione del Territorio presso il Politecnico di Milano, ne ha fatto il proprio argomento di tesi, e noi l’abbiamo incontrata per sapere qualcosa di più.
Maddalena, che cosa sono per te gli orti urbani oggi a Milano?
Sono luoghi di grande potenzialità, acclamati e contestati al tempo stesso. Gli orti sono presenti nelle città da sempre, ma la loro diffusione e visibilità sono cresciute esponenzialmente in tempi recenti. Nati a volte anche per caso, senza un progetto esplicito, sono spesso diventati importanti  per il paesaggio delle zone in cui si trovano.
Le loro potenzialità sono sfruttate in modo adeguato?
Dipende dai casi presi in esame. Le potenzialità degli orti sono legate alla loro capacità di produrre coesione sociale e alla possibilità di consolidare gli spazi aperti. Per quanto riguarda Milano, queste potenzialità non sono sfruttate appieno. Gli orti pubblici sono pochi, necessariamente ‘ghettizzanti’ e male allacciati alla città. Per questa ragione, probabilmente, Milano è diventata teatro di numerose soluzioni alternative, alcune estremamente creative. Molti esempi di orti informali, episodi di guerriglia gardening, orti legati ad associazioni, casi coltivazioni nei giardini e sui balconi possono fornire elementi utili per sviluppare nuovi progetti. 
Esiste una soluzione al problema della ghettizzazione?
Gli orti pubblici vengono spesso chiamati ‘orti per anziani’. Il motivo risiede nel principio di welfare che caratterizza i bandi di assegnazione, che privilegiano le categorie deboli. Il problema può essere risolto solo allargando l’offerta pubblica, oppure incentivando l’iniziativa spontanee di privati e associazioni, come avviene ad esempio in molte città francesi, tedesche e svizzere..
Cosa non può mancare all’interno di un orto urbano?
Innanzitutto la terra, di buona qualità, e l’acqua. Poi uno spazio per depositare gli attrezzi. Altri elementi non sono strettamente necessari, ma concorrono a determinare il successo di un orto. Molti di questi possono essere progettati come spazi comuni. È il caso dei servizi igienici, spesso assenti negli orti pubblici. Può essere utile avere un’area adibita al compostaggio, uno spazio per fare giocare i bambini, alcune zone d’ombra, un’area al coperto per mangiare o ripararsi da improvvisi temporali, un semenzaio dove iniziare a far crescere le piante nei vasi per poi trasportarle nel proprio orto, dei terminali internet per condurre ricerche relative alla coltivazione, o ancora un deposito comune per i mezzi pesanti, magari per smuovere la terra prima della semina e così via. Un buon progetto di orti tiene in considerazione anche ciò che sta fuori dall’orto stesso: i camminamenti, le aree di parcheggio e sosta, i bordi strada. Tutti questi elementi, se progettati adeguatamente, possono trasformare un insieme di orti in uno spazio gradevole per tutti. L’orto è di per sé uno spazio privato, che va salvaguardato (dal transito dei cani, più che dai furti) e viene generalmente recintato. Le recinzioni, che hanno uno scopo preciso e rappresentano al tempo stesso la ‘facciata’ degli orti verso l’esterno, possono diventare un tema di progetto importante. Infine, quando si progetta un orto in una città come Milano, non si può sottovalutare la forte stagionalità. La messa a riposo invernale diventa quindi un ulteriore importante elemento da tenere in grande considerazione in fase di progetto. 
Conosci gli orti di via Chiodi, a Milano?
Sì. Si tratta di un caso estremamente interessante per Milano, con un modello di gestione inedito, dove è il privato a garantire l’offerta pubblica. Dal punto di vista progettuale, gli orti di via Chiodi sono un laboratorio all’aria aperta. Le tre diverse aree che compongono il lotto, realizzate incrementalmente, rappresentano un’evoluzione progettuale che ha tenuto conto degli elementi positivi e delle criticità rilevate di volta in volta. Questo ha ovviamente prodotto una certa disomogeneità, che sommata alla presenza di ombrelloni, gazebo, e arredi gestiti individualmente dagli affittuari, genera un senso di disordine. La caratteristica più interessante degli orti di via Chiodi è la compresenza di diversi gruppi sociali, che si alternano nei diversi momenti della giornata o si mescolano nelle ore di punta, e rendono il complesso orticolo molto vivace. 
Dove possiamo trovare degli esempi validi da seguire?
Gli esempi interessanti di orti urbani si sprecano. Esistono alcuni riferimenti ‘mainstream’ – come i community gardens statunitensi e gli orti di Cuba – che possono fornire spunti interessanti, ma che difficilmente possono essere riproposti a Milano così come sono, per ovvie differenze di contesto. I paesi mediterranei vantano una lunga tradizione di orti urbani. Consiglio a questo proposito la lettura di Campagne Urbane, di Pierre Donadieu. Quanto a esempi concreti, vale la pena di dare un’occhiata alle diverse esperienze raccolte nella rete dei Jardins Familiaux (http://www.jardins-familiaux.org/) europei, ma anche a modelli più lontani e poco studiati. Le cinture urbane delle città russe possono essere esempi interessanti per ripensare al rapporto tra Milano e parco agricolo. Molto interessante è anche un libro intitolato CPULs – Continous and Productive Urban Landscapes, di Andren Viljoen (http://www.energybulletin.net/node/17603). 
Ci sono infine delle curiose realtà, anche qui a Milano, che hanno a mio avviso il potere di sensibilizzare sul tema, come l’iniziativa “Adotta un orto” (http://www.cascinasantabrera.it/adottaorto.html), sostenuta dalla Cascina Santa Brera, che propone la possibilità di raccogliere i frutti del proprio appezzamento di terreno, che è stato però coltivato da persone competenti. La raccolta degli ortaggi diventa così un'occasione di socializzazione.